“Vengo da un quartiere che tanti anni fa era una sorta di confine: Pineta/Primavalle.
Un posto dove – negli anni in cui ero ragazzino – la criminalità era la normalità: all’ingresso della bisca di fronte casa c’era una mensola, e chi entrava poggiava i cosiddetti “ferri”. Tutti in fila, come bravi soldatini.
Era così, non ci facevi nemmeno caso. Degli amici di allora, tanti non ci sono più: chi se ne è andato per eroina, chi in galera, chi per rapina; qualcuno, dopo molti anni, ho saputo che era morto di Aids.
Io ero piccolo e mi muovevo per il quartiere. Ci eravamo trasferiti dai miei nonni – due persone agli estremi di un angolo piatto, lei con il quadro della Madonna sul letto, lui con il ritratto di Stalin – la nonna stava male con il cuore, ma poi ad ammalarsi sul serio è stata mia madre, circa un anno dopo.
Ammalarsi di tumore, negli anni Settanta, non era come oggi: la chemio non c’era, le terapie con il cobalto pesantissime.
Dalla malattia di mia madre si scatena un effetto domino sulla mia vita: venivo sballottato da una famiglia all’altra e inizio ad avere degli attacchi di pianto.
Tu non avresti pianto con tua madre che stava morendo? Ecco, io vengo spedito nelle classi differenziali, quelle per ragazzi difficili.
È stato mio fratello Maurizio, di 8 anni più grande, a tirarmi fuori da lì: un giorno venne a prendermi e litigò con tutti.
E grazie a lui ho rotto pure con la borgata: mi ha portato alle prime manifestazioni ed è nata in me la passione per la politica.
Era la fine del ’73. Avevo deciso di lasciare la scuola dopo le medie e iniziare a lavorare.
San Basilio, Casal Bruciato, il Golpe in Cile: tutti in piazza per le lotte dove c’era grande partecipazione.
Da lì lascio la vita di borgata e finisco a Pomponazzi, dove nasce la prima sede del collettivo del manifesto.
Erano giorni, serate piene di discussioni, di ideali: ci riunivamo in 200 in quella piazzetta, tutti convinti che il mondo si potesse cambiare in meglio.
Poi la vita scorre, succedono tante cose e non tutto va come vorresti. Arrivano gli anni di piombo e lì secondo me è l’inizio della fine.
Però 10 anni fa decido, una notte, di prendere quel diploma mai preso: dirigente di comunità, voto finale 84, con una tesi su don Milani.
In qualche modo, è come se avessi preparato la prossima rottura. Magari mollo tutto e vado in una ong: questa volta, forse, un pezzettino di mondo riesco a cambiarlo.”

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