La prima volta che mi son rotto qualcosa è stata giocando a pallone. Calcio di strada, anzi di fabbrica,
perché si giocava su un manto d’asfalto gettato dentro a una fabbrica dismessa in provincia. Il campo dell’Ex Ilva.
Mi son rotto il polso della mano sinistra, falciato da uno che giocava con me, nella mia squadra. Mi aveva buttato giù perché non gli avevo passato la palla.
Il calcio dei bimbi proletari era una cosa così. Rabbia che si rifletteva in frustrazione, senza un’idea di come spingere la palla avanti.
Ci ho messo anni a capire che tra noi sfigati figli di operai non dovevamo romperci le ossa a vicenda, col pallone o con le fionde e gli schiaffi.
Che dovevamo scoprire gli interessi comuni della nostra condizione e costruire una barriera, un modulo di gioco contro l’avversario di classe, per rompere il suo gioco, mentre lui rompeva i nostri sogni.
Iniziai a leggere Il Manifesto a 16 anni: per non farmi rompere, per rimettere assieme i pezzi delle nostre storie.
E lanciarli con la fionda per rompere ogni muro

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